Ore 17,58: il 23 maggio di Giuseppe Costanza


Scritto da Francesco Cipriano


Sembra incazzato, Giuseppe Costanza, sembra incazzato ogni volta che lo incontro. L’avevo ascoltato durante una commemorazione qualche anno fa e sembrava incazzato. L’ho rivisto l’estate scorsa a una cena e tra una panella e una fetta di pizza mi pareva ancora incazzato. E anche oggi, invitato a una tavola rotonda a Isola delle Femmine in occasione del trentaduesimo anniversario della strage di Capaci, Giuseppe Costanza ha l’aria incazzata. 

Ha 77 anni, l’aspetto di un ex pugile che indossa un completo blu che gli sta pure bene, ma con una cravatta rossa che pare strozzargli il collo tozzo e aumentargli la pressione sanguigna dalla giugulare alle tempie. Sembra incazzato e pure a ragione: la sua è una rabbia assolutamente legittima e giustificata, viste le angherie che ha subito. Ma anche perché alle 17.58 del 23 maggio Giuseppe Costanza ha sfiorato la morte da così vicino che quando sopravvivi a un evento del genere ne esci ancora più incazzato di prima. 

Alle 17,58 del 23 maggio, Costanza, che per otto anni era stato l’autista di Giovanni Falcone, si trovava sui sedili posteriori della Chioma bianca guidata dal giudice, quando una carica di 500 chili di tritolo esplose facendo saltare in aria l’autostrada A29 all’altezza dello svincolo di Capaci. Fu per un puro caso, un errore di distrazione di Falcone, che Giuseppe Costanza sopravvisse all’impatto. 

I due si erano conosciuti otto anni prima, nel 1984. Falcone era già un giudice del pool antimafia e quell’anno Tommaso Buscetta si sarebbe pentito, spianando così la strada per il Maxiprocesso. Costanza invece ha 27 anni e ha vinto il concorso al Ministero della Difesa come autista di mezzi blindati: viene così affidato al giudice Falcone. Per otto anni Costanza gli sta accanto, lo accompagna nei suoi spostamenti, assiste agli anni più caldi e turbolenti: il maxiprocesso, il disfacimento del pool antimafia in seguito al pensionamento di Caponnetto e la nomina di Meli, la macchina del fango che si scaglia su Falcone e Borsellino. 

“Io sono stato con Falcone otto anni e ne ho visto di cose” dice Costanza, che  era presente anche all’Addaura, quando nel 1989, sulla scogliera antistante la villa presa in affitto da Falcone per l’estate, venne rinvenuto un borsone con una muta da sub appoggiata sopra. Il borsone conteneva una bomba che avrebbe dovuto uccidere Falcone. 

“All’ Addaura io c’ero, anche se non sono un agente, ma un dipendente del Ministero della Difesa in abiti civili, il conducente di un mezzo blindato. Ma ci siamo talmente amalgamati (con la scorta, NdA) che non facevamo più distinzione, quindi sono sceso sulla scogliera dove quel giorno è stato rinvenuto un borsone con una muta da sub poggiata sopra. Un collega, Roberto Lindari, ha aperto quella cerniera mettendo in evidenza il contenuto: erano due cassette, di cui una in metallo, con un lucchetto e collegata con dei fili. Si capì subito che era una bomba e si diede l’allarme. Il magistrato venne informato ma era incredulo e mi fece chiamare:

“Cos’è questo discorso della bomba?”

“C’è una bomba sulla scogliera”

“Ma lei l’ha vista?”

“Sì l’ho vista”

Finalmente Falcone si convince e si fa mettere in protezione; Costanza rimane sulla scogliera assieme all’artificiere, che messa una mini carica su quel lucchetto, dopo essersi riparati dietro uno scoglio, fa brillare la bomba.

“E si vede - perché ne ho ancora memoria - questo “puff”, questo fumo come se si fumasse una sigaretta, ma un po’ più densa: nulla andò distrutto, nemmeno il borsone, nulla. 

Poi sono stato chiamato a Caltanissetta a testimoniare, dove hanno fatto una falsa dichiarazione in cui si diceva che nell’esplosione andò distrutto il timer. Non è vero, è falso. Ci sono state anche delle conseguenze giudiziarie, ma il timer non si è trovato più”.

Costanza rimane l’autista di Falcone anche quando il giudice lascia la Sicilia per andare a dirigere gli Affari Penali a Roma. E proprio dalla capitale stava tornando Falcone quel fatidico 23 maggio. Quel sabato Costanza ricevette di prima mattina una chiamata dal giudice:

“Quel giorno mi chiamò alle 07.05 a casa comunicandomi il suo orario di arrivo: 17.45. Il mio compito era di allertare la scorta, quindi mi reco in ufficio chiamo l’ufficio scorte comunicando l’arrivò del Dottor Falcone: la chiamata la faccio non da un telefono qualunque, ma un telefono “sicuro” nella stanza del dottor Guarnotta dentro l’ex Ufficio Istruzione,  il cosiddetto bunkerino”.

“Puntualissimi ci siamo ritrovati dentro l’aeroporto, perché noi entravamo con le macchine posizionandoci nella zona Vigili del Fuoco. Lui non viaggiava con un aereo di linea, ma con un Falcon 10. Arrivò puntualissimo, quando l’aereo si è fermato io mi sono accostato. Si apre lo sportello e Falcone scende insieme alla moglie Francesca Morvillo

La dottoressa Morvillo, anche quando il marito non era presente, prendeva posto davanti, lato passeggero, perché soffriva di mal d’auto. 

Ci avviamo verso Palermo mettendosi lui al volante perché lui voleva stare accanto alla moglie. Io ero seduto dietro, centralmente ai due sedili posteriori”.

Il corteo di Fiat Croma lascia l’aeroporto di Punta Raisi e imbocca l’A29 in direzione Palermo. Mentre guida, Falcone inizia una banale conversazione con Costanza: gli chiede se la sua auto è pronta. Il giudice infatti, che a Roma si muoveva senza scorta, aveva chiesto al suo autista di fargli mettere a posto la sua automobile personale, in modo da portarsela nella Capitale e avere lì un mezzo con cui spostarsi. Costanza risponde a Falcone che sì, l’auto è pronta. 

“Io a casa non mi fermo” dice Falcone “ho un incontro con dei magistrati. Tu riaccompagna Francesca a casa, poi noi ci rivedremo lunedì”.

Per quella domenica, infatti, Costanza aveva chiesto un giorno libero per poter assistere alla prima comunione del figli; Falcone aveva acconsentito. 

Costanza però ha le chiavi di casa appese al mazzo della chiave dell’auto, in quel momento inserite poiché Falcone sta guidando la Croma. Quindi chiede al giudice: 

“Dottore, quando arriviamo a casa mi dà le mie chiavi?”

Ed è a questo punto che una pura casualità dovuta alla distrazione di Falcone finirà per salvare la vita del suo autista.

Le chiavi erano rimaste inserite, con il motore acceso e l’auto che sfrecciava a circa 120 chilometri orari, ma Falcone è talmente soprappensiero che sfila le chiavi e fa per passarle a Costanza che si trova sul sedile posteriore.

“Ma che fa? Così ci andiamo ad ammazzare!” lo richiama Costanza. 

Falcone gira il capo verso la moglie, che annuisce, quindi sembra ridestarsi da un torpore che lo aveva distratto e subito reinserisce le chiavi.

“Scusi, scusi” balbetta Falcone, pure lui incredulo della propria sbadataggine. 

Racconta Costanza: “Ecco, lui in quel momento era fisicamente alla guida, ma mentalmente non era lì: questo mi ha salvato la vita, perché in quel momento avviene l’esplosione”.

Questo gesto di pochissimi secondi sarà determinante: sfilando le chiavi dal cruscotto, infatti, la Croma guidata da Falcone subisce un improvviso rallentamento che inganna gli attentatori che dalla collina che sovrasta Capaci osservavano il corteo di auto blindate avvicinarsi al punto imbottito di tritolo, l’auto di Falcone rallentare: per questo anticipano di mezzo secondo la detonazione. 

L’esplosione la beccano i ragazzi che ci precedevano la Croma del giudice: sono gli agenti di scorta Dicillo, Schifani e Montinaro. È la loro auto a ritrovarsi sul punto dell’esplosione, tanto’è che verrà catapultata in aria e ritrovate a circa ottanta metri di distanza. La Croma bianca con a bordo Falcone, la Morvillo e Costanza, invece, non viene propriamente investita dall’esplosione: si è trattato invece di uno scontro tra un’auto che viaggiava tra i 100 e i 120 chilometri orari e un muro che si alza all’improvviso. 

Questa la scena: i 500 chili di tritolo fanno sobbalzare l’auto con gli agenti di scorta, ma a causa dell’esplosione, l’auto di Falcone si ritrova all’improvviso davanti un muro di asfalto che si alza, contro cui vanno a sbattere per essere poi mezzi sommersi dai detriti. Il vano motori si accartoccia su se stesso, il manubrio va a comprimere il petto di Falcone, la Morvillo si rompe le gambe. Costanza invece, che sia trova dietro, viene sobbalzato contro il parabrezza e poi di nuovo sui sedili posteriori.

“Io da dietro andai a cozzare davanti, andando a buttare fuori il parabrezza e il contraccolpo mi riportò indietro. Infatti se avete modo di guardare la macchina, che si trova alla Scuola di Polizia Penitenziaria a Roma, troverete i due sedili anteriori piegati in avanti, perché sono stato io con la forza della violenza subita a piegarli”. 

Per la violenza dell’impatto, Costanza perde i sensi. 

Nei giorni successivi l’unico magistrato ad andare a trovarlo in ospedale è Paolo Borsellino. Anche se non è titolare delle indagini, il giudice vuole capire cosa è successo all’amico. Fa uscire dalla stanza d’ospedale i genitori di Costanza e si fa raccontare la sua versione del 23 maggio. La stessa che l’ex autista va raccontando in giro. 

“Ex” autista perché nel frattempo Costanza ha cambiato mestiere: adesso fa l’informatico.

Ma non identificatelo come autista o informatico: lui è Giuseppe Costanza. Una battaglia, quella per la riappropriazione del proprio nome, che Costanza fa a nome suo e degli altri sopravvissuti.

Bisogna fare i nomi: a volte se ne parla dicendo “l’autista” o “il poliziotto”, ma noi abbiamo un nome e un cognome. Gli agenti si chiamano Angelo Corbo, Paolo Capuzza e Gaspare Cervello. Io mi chiamo Giuseppe Costanza. E quando inizialmente sentivo dire “l’autista” mi dava fastidio, come se io non avessi un nome. L’ho fatto valere: ora non si parla più dell’autista bensì di Giuseppe Costanza. A maggior ragione non sono più l’autista, perché dopo i tristi fatti del 23 maggio iniziai a studiare perché in ufficio non sapevano che farsene di me. Ho avuto la disgrazia di sopravvivere all’attentato e poi di subire angherie in ufficio: io non avevo un posto, non avevo niente, e questo è durato per tantissimi anni. Allora ho ripreso a studiare e ho vinto nella stessa amministrazione un concorso: oggi sono un informatico, non più un autista. Avevo 45 anni all’epoca, non è facile ricominciare a studiare a quell’età dopo aver cessato, è molto pesante”.

Per 23 anni Costanza rimane isolato, nessuno si ricorda più di lui, non viene invitato alle commemorazioni e se di lui si parla, lo si fa senza pronunciare il suo nome, ma solo la sua qualifica dell’epoca: “l’autista di Falcone”.

“Per me c’è stato un risveglio della memoria nel 2013, perché per 23 anni sono stato isolato, nessuno mi ha mai invitato alle varie cerimonie” continua Costanza. “Quell’anno guardavo la commemorazione in televisione, e mio nipote mi disse “Nonno, ma non c’eri pure tu a Capaci? Ma perché non sei sul palco con loro?”. Eccolo il risveglio della memoria, questo schiaffo morale che mi ha dato mio nipote, mi ha fatto bene e mi ha svegliato da un torpore di sonnolenza, perché vedevo che nessuno mi cercava mentre personaggi a me sconosciuti facevano la passerella sul palco. Da quel momento iniziai a farmi sentire”.

E quando si fa sentire, Costanza non racconta solo la sua testimonianza del 23 maggio: sulle cause della strage sembra avere le idee ben chiare grazie a una confidenza fattagli da Falcone appena una settimana prima di morire:

“Si disse che è stata la mafia. Ma di quale mafia stiamo parlando? Totò Riina, Bernardo Provenzano? Ma questa è la manovalanza, non è mafia. E vi dico questo per una confidenza fattami la Giovanni Falcone la settimana prima dell’attentato. Scendendo a Palermo dal suo piccolo aereo, salendo in macchina non si è potuto trattenere: mi disse “È fatta, io sarò Procuratore Nazionale Antimafia, ci organizzeremo a Palermo con un ufficio e non ci muoveremo più in macchina ma con un elicottero”. Io ritengo che il movente della strage sia questa sua nomina. Quindi la manovalanza è locale, ma la mente raffinatissima, la mafia, ancora non sappiamo dov’è: e sono passati trentadue anni. Potevano ucciderlo a Roma, dove caminava senza scorta, invece è stato ucciso in Sicilia per far pensare alla mafia. Forse ne trascorreranno altri 30, 40, 50 anni per sapere un barlume di verità, quando i responsabili non ci saranno più.


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