Ore 17,58: il 23 maggio di Salvatore Gambino


Scritto da Francesco Cipriano


Alle ore 17,58 del 23 maggio 1992 Salvatore Gambino ha 32 anni e si trova a bordo della sua auto, una Fiat Tempra color grigio topo, insieme al cugino Salvatore. Sta tornando a casa sua a Torretta dopo una giornata di lavoro a Palermo. Mentre guida lungo l’autostrada A29 in direzione Mazara del Vallo, lascia Palermo alle sue spalle e vede il paesaggio scorrere alla sua destra: Tommaso Natale, Sferracavallo, le due gallerie, poi l’isolotto di Isola delle Femmine. A questo punto il signor Gambino deve prendere una decisione: deve decidere se imboccare l’uscita di Capaci o percorrere qualche altro chilometro e uscire a Carini. Entrambi gli svincoli infatti permettono di raggiungere Torretta. Una decisione banale e quotidiana che ha preso tante altre volte. I secondi passano, lo svincolo si avvicina sempre più. Gambino è sovrappensiero e d’istinto decide di uscire a Capaci: imbocca lo svincolo e dopo qualche secondo si ritrova sul ponte che sovrasta l’A29. Sono le ore 17.58.

Sarà questa banale decisione a proteggerlo dall’esplosione.

Alle ore 17.58 del 23 maggio 1992, una carica di cinquecento chili di tritolo esplode lungo l'autostrada A29 nei pressi dello svincolo di Capaci.

L'ordigno colpisce un corteo formato da tre Fiat Croma blindate - una marrone, una bianca e una azzurra - provocando un cratere a forma di ellisse, lungo quindici metri e profondo quattro.

Tra le vittime dell'attentato c'è il giudice Falcone, accompagnato dalla moglie Francesca Morvillo e dagli agenti della scorta Montinaro, Schifani e Dicillo. In totale, sull'asfalto restano i corpi di cinque persone.

In quel momento, Salvatore Gambino si trova a pochi metri dal punto dell'esplosione, nella sua auto che percorre il ponte che sovrasta l’A29, quando un boato enorme ferma il tempo.

Oggi, a 32 anni dalla strage di Capaci, il signor Gambino racconta a Compaesano ciò che ha visto quel giorno.

"Stavo guidando la mia auto, una Fiat Tempra color grigio topo. Ero insieme a mio cugino Salvatore, tornavamo da Palermo dopo una giornata di lavoro. Eravamo in autostrada, in direzione Palermo-Punta Raisi. Stavamo parlando del più e del meno, non ricordo di cosa… sono passati tanti anni."

Gambino siede davanti a me, in una piccola utilitaria guidata dal figlio: ripercorriamo il tragitto di quel giorno. Man mano che ci avviciniamo al luogo della strage, l'uomo inizia a raccontare.

«Ho sentito il botto all'uscita dell'autostrada, mi trovavo sulla rampa dello svincolo di Capaci. Un boato enorme. Ho subito pensato che fosse caduto un aereo, visto che qua vicino c'è l'aeroporto," racconta.

"Sono arrivato sul cavalcavia e ho visto una grande fumata nera. Ho lasciato l'auto lì sopra e sono sceso direttamente in autostrada. Ricordo delle persone correre: scappavano, 'c'è puzza di gas' urlavano. Pure io sentivo puzza di gas. Siamo arrivati lì e abbiamo visto una voragine gigantesca."

"Ricordo le prime auto, quelle nella corsia opposta: c'erano dei feriti, ma non sembrava che avessero bisogno d'aiuto." Gambino e suo cugino, allora, si dirigono verso la Fiat Croma bianca, quella guidata da Giovanni Falcone. Ma appena si avvicinano, un uomo armato gli punta contro la pistola urlandogli di stare alla larga.

"Appena mi sono avvicinato un uomo mi ha puntato una pistola addosso, urlandomi di non toccare l'auto. Era confuso, stordito dalla botta. Mi ha nuovamente intimato di non avvicinarmi," prosegue. "Gli risposi: se ci sono persone vive, io devo prestare soccorso. Se hai coraggio, spara."

L'uomo armato è uno tra Paolo Capuzza, Gaspare Cervello e Angelo Corbo — i tre agenti della scorta sopravvissuti all'attentato, che viaggiavano nella Fiat Croma Azzurra che chiudeva il corteo. Furono proprio loro a raccontare l'esplosione: un boato seguito da uno sbalzo, e "un muro d'asfalto" che si alza dall'autostrada.

Usciti dall'auto feriti e frastornati, i tre uomini della sicurezza accerchiano la Fiat Croma Bianca, temendo che gli attentatori possano sferrare un nuovo attacco.

"Quando ha capito che volevo aiutare, ha lasciato che mi avvicinassi: ci siamo messi a togliere i detriti e la terra, abbiamo anche tolto il parabrezza. Io non pensavo a niente, solo ad aiutare” continua Gambino.

"Abbiamo trascinato fuori dall'auto l'uomo che sedeva sul sedile posteriore, credo che fosse cosciente (si tratta dell’autista Giuseppe Costanza, nda). Il conducente e la donna sul sedile del passeggero erano in condizioni gravissime. Mentre tiravo fuori la donna è arrivata l'ambulanza: l'ho presa in braccio e l'ho passata al paramedico. Ricordo che aveva la gamba spezzata."

"L'uomo alla guida era una maschera di sangue, non lo abbiamo potuto aiutare: il manubrio gli bloccava il petto. Quando sono arrivati, i pompieri hanno tagliato le lamiere con una sega a scoppio e hanno liberato il corpo."

"Solo più tardi ho capito cosa stava succedendo: quando sono arrivati i soccorsi, i poliziotti, i carabinieri, i giornalisti, e ho sentito qualcuno dire che quello era il Giudice Falcone."

A bordo della Croma Bianca al centro del corteo, oltre a Falcone, c'erano anche Francesca Morvillo, rimasta uccisa, e l'autista Giuseppe Costanza, sopravvissuto.

Come ha dichiarato lo stesso Costanza, fu Giovanni Falcone a voler guidare l'auto quel pomeriggio: per questo motivo l'autista si trovava sul sedile posteriore. Giunti nei pressi di Capaci, Costanza ricordò a Falcone che una volta arrivati a Palermo il giudice doveva riconsegnargli le chiavi; quest'ultimo, sovrappensiero, estrasse la chiave dal cruscotto, facendo così rallentare l'auto.

Questa fatalità trasse in inganno gli attentatori che, vedendo il corteo decelerare, azionarono il telecomando in anticipo. Alle ore 17.58 la Fiat Croma bianca si schiantò a circa 90 chilometri orari contro il muro d'asfalto alzatosi per effetto dell'esplosione.

"Quando abbiamo finito di dare soccorso alla Croma Bianca, dopo un po', abbiamo trovato l'ultima macchina: era lì, nel terreno adiacente, lato mare, lontano dall'autostrada. Non c'era niente da fare: le ruote erano in aria, l'abitacolo completamente schiacciato," racconta Gambino.

Nella Fiat Croma marrone che apriva il corteo viaggiavano gli agenti di scorta Vito Schifani, Antonio Montinaro e Rocco Dicillo, tutti deceduti. Alle ore 17.58 la loro auto si trovava sopra la carica esplosiva: furono sbalzati in un terreno contiguo all'autostrada, a una distanza di sessantadue metri dal cratere.

Più tardi, Gambino si trova ancora sulla scena dell'attentato. La polizia gli chiede di seguirlo, affinché racconti quello che ha visto. "Ho potuto prendere la mia auto, accompagnato da un agente che era seduto accanto a me: non abbiamo mai parlato, siamo rimasti in silenzio. C'era una volante con le sirene accese davanti a noi, ad aprirci la strada."

"In Questura c'era una brutta aria, erano tutti agitati. Abbiamo dovuto aspettare per ore in una stanza, senza un bicchiere d'acqua, senza poterci muovere. Ho chiesto di telefonare alla mia famiglia ma mi hanno detto che i telefoni erano fuori uso. Poi il giudice che aspettavamo non è più venuto e siamo stati interrogati da alcuni poliziotti. Alle tre ci hanno fatto andare via."

Mentre tornava a casa, Gambino non pensava "a niente", spiega a Compaesano. "Ero stanco, stanco. Tutto il giorno al lavoro, l'esplosione, i soccorsi, poi ore e ore in Questura ad aspettare. Ero esausto, avevo bisogno di dormire."

"Quando sono tornato a casa ho trovato mia moglie e i miei figli svegli: erano in apprensione per me, non avevano mie notizie dalla mattina, quando ero uscito per andare a lavorare. Pensavano che fossi rimasto coinvolto nell'esplosione. Mi sono tolto i vestiti: erano sporchi di terra e di polvere… e del sangue della Morvillo. Mi sono fatto una doccia e sono andato a letto."

Gambino è a pezzi. "Ero stanchissimo, sono crollato”.

Ma se la notte del 23 maggio Salvatore Gambino riuscì a dormire, quelle successive furono dure da affrontare:

“Le notti successive, però, non sono più riuscito a dormire: avevo negli occhi quelle immagini, ripensavo a quello che avevo visto. È stato terrificante."

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