Torretta, le elezioni comunali e il processo del cantaro in trionfo

A Torretta le elezioni sono sempre state vissute con molta enfasi. Storicamente, durante tutta la prima repubblica si sono contrapposte due liste: la Democrazia Cristiana e la Lista Torre, un calderone che comprendeva tutti gli avversari della DC. Le prime elezioni repubblicane, a Torretta, finirono in un’ aula di tribunale per colpa di… un cantaro.

A raccontarci questo episodio è Tommaso Scalici, nipote di Ugo Merendino, il “Professore” protagonista di questa storia.


Il processo del cantaro

Scritto da Tommaso Scalici

Prologo: All’alba della Repubblica

Ci fu un tempo, all’alba della Repubblica, in cui in ogni angolo d’Italia si festeggiava la prima elezione democratica. Un tempo che pochi ricordano e che molti immaginano, ognuno a suo modo, partendo da racconti e libri di storia. Un tempo talmente remoto che ormai è più semplice che si racconti in bianco e nero: ed è così che forse è meglio sbiadire i colori di questo racconto e rendere tutto più romantico e, forse, tragicomico.

All’indomani delle prime amministrative, mentre le donne italiane, con il petto gonfio d’orgoglio gustavano la conquista del diritto di voto, a Torretta, un paese di qualche migliaio di anime e poche decine di cognomi, arroccato nelle colline dei monti di Palermo, andava in scena uno degli atti più sfiziosi della teatro elettorale: il processo del cantaro.

Ebbene si, cari lettori, il cantaro! Non un errore di redazione.. mi riferisco proprio al pitale, al vaso da notte che era comunemente colmato con la puntualità che, che se ne voglia dire, non caratterizzava di certo il sistema ferroviario del regime.

E adesso che ho la vostra attenzione, mettetevi comodi che vi racconto.

Le elezioni comunali

Nel 1946 la mia famiglia, sin dall’inizio del secolo ed attraverso le generazioni attrici della politica locale, perdeva mestamente la prima di una lunghissima sequenza di elezioni. E credetemi, non si trattava solo di perdere una consultazione elettorale:  se si perdevano le elezioni, si subivano le angherie dei vincenti, lo sfottò, le mele cotogne (che si sa, rimangono in gola…). Insomma,  i soldati americani non avevano sicuramente importato la traduzione delle parole “fair play”.  Se si vinceva, si doveva vincere male, ma se si perdeva, si doveva perdere anche peggio.

Quelle elezioni furono vinte, manco a dirlo, dalla Democrazia Cristiana che, come divenne usanza, portarono in processione, con tanto di banda musicale, il neosindaco (in effetti il primo sindaco repubblicano) in trinità con il maresciallo dei Carabinieri e il prete del paese con un nutrito seguito di sostenitori. Non una dimostrazione di potere ma solo un modo folkloristico per festeggiare il successo.

Se non che i toni aspri delle elezioni trasformarono inevitabilmente il corteo in una parata con il chiaro obiettivo di prendere in giro i componenti della lista perdente che, nel frattempo, si era riunita a leccarsi le ferite in uno dei pochi ritrovi del paese. Il programma era chiaro: passiamo da lì e poi…

Potete immaginare cosa sarà successo tra fischi e pernacchie…

Mai errore fu più grande, perché appunto: “se si perde, si deve perdere anche peggio”…

Dovete sapere, cari lettori, che il paese non era così grande. Una strada principale che lo percorreva in lunghezza e tante traverse. Ed era proprio lungo la strada principale che il serpentone della DC dilagava verso monte.

Dal canto loro, i perdenti decisero temerariamente di non subire in silenzio e anche loro organizzarono la loro processione. Presi due tavolini in prestito dal bar e un cantaro da un compaesano (immagino fosse pulito, non preoccupatevi), prepararono il discutibile cantaro trionfale e scesero verso valle tra l’ilarità dei compaesani che assistevano ad una scena degna di una commedia pirandelliana.

L’offesa fu chiara quando i due cortei, tornando dal giro del paese, si incontrarono nella piazza. Lo stupore fu immenso, molti riuscirono solo a balbettare non trovando le parole.

Finché fu il maresciallo a farsi avanti e chiedere spiegazioni per l’offesa:

“Professore, cosa simboleggia questo cantaro?”

Il professore si girò perplesso a guardare il maestoso pitale con la sua sigaretta tra le dita, il braccio a martello e la giacca grigia e cercando le parole migliori rispose con la sua flemma:

“Maresciallo, simboleggia un cantaro”.

Epilogo: A processo

Il processo che si celebrò presso il foro di Palermo fu intenso e partecipato. Studenti del Liceo Umberto e del Liceo Meli parteciparono con curiosità e gli avvocati della trinità, in accesi dibattiti, rivolsero la domanda che avrebbe dovuto dimostrare l’offesa:

“Cosa simboleggia?”.

La risposta fu sempre la stessa:

“Un cantaro!”.

Il giudice sorrise. Tutti furono assolti.

Ugo Merendino, il Professore.


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