L’arte dell’ignoranza e altre visioni - Intervista a Cesare Inzerillo


Scritto da Vanessa Leone


È la vigilia di Natale, e la location scelta per la nostra chiacchierata è il salottino al primo piano dell'unico locale sulla piazza di Cinisi. Il palazzo dei Benedettini ci guarda attraverso la tenda di una fitta pioggia dicembrina. Noi, dietro vetri opacizzati nei nostri caldi pullover, ci mettiamo comodi. Adesso, mentre rileggo gli appunti presi durante la conversazione, ho un occhio puntato al contatore delle parole. Non vorrei annoiare nessuno, non vorrei essere prolissa, perché lo so che il tempo dei romanzi è stato spazzato via da quello delle stories sui social. E il peggio non è che i tempi si siano accorciati, ma che si pretende che ciò che ha bisogno di tempo, possa essere ridotto. Seicento pagine di Delitto e Castigo strizzate in un reel di Instagram. Ce lo immaginiamo? Non c'è bisogno. È già realtà. Così tutto diventa un surrogato di qualcosa.

Ed è questo il centro del pensiero di Cesare Inzerillo, 53 anni, artista.

"Faccio sempre fatica a rispondere sulla mia professione con una sola parola, con un'etichetta che mi definisca, perciò quando mi chiedono che lavoro faccio, elenco le opere, gli impegni...Solo da poco ho ridotto tutto con artista. Ma è, appunto, riduttivo. L'arte è una parola troppo grande perché possa definire qualcosa di specifico".

Scenografo, scultore, sceneggiatore: lo possiamo accennare senza pretendere di inserirlo in una determinata categoria. Ma oggi, comunque, qualsiasi sia il suo profilo professionale, è sicuramente un uomo con una grande lente d'ingrandimento che chiede aiuto per la salvezza della cultura.

"L'arte è quella cosa che ti mette in contatto con la realtà e ti fa vedere le cose per quello che sono. Ed è stata sostituita dell'intrattenimento. Se la prima implica tempo, sacrificio, studio, ricerca e mani sporche, l'altra appaga quel vano bisogno di evasione che è sempre più forte nella vita delle persone". L'esempio che ci porta è simbolico ma anche tanto pratico. "I fuochi d'artificio fanno un gran botto e seducono con i loro colori e giochi di luce, ma una volta finiti non rimane nulla. Un semino, per nulla attraente né affascinante alla vista, se te ne prendi cura diventerà qualcosa di bello che darà frutto".

Per un attimo le sue parole prendono forma e mi vedo con la testa in su ad ammirare i giochi pirotecnici. Gli chiedo allora perché ne siamo attratti.

"Perché è istantanea e spettacolare quell'esplosione di colori. E in questo tempo non abbiamo più alcuna pazienza, né la capacità di coltivare alcunché" risponde.

Il piano della conversazione si sposta allora sulla noia, sul tempo vuoto e lento che, effettivamente, sembra non esistere più.

"Tutte le cose di qualità hanno bisogno di tempo" dice.

E parla del bollito che sta preparando a casa, per il quale sa che ci sono tempi lunghi e passaggi obbligati. Nel frattempo io penso agli allevamenti intensivi, ai piatti già pronti, al lievito istantaneo dei nostri tempi. Ogni frase di questa chiacchierata si fa plastica, materica. E le parole si depositano su quel cerchio di marmo che nasconde le nostre gambe che in questo momento non contano, perché quello che serve sono gli occhi che vedono la trasformazione di un mondo che non ci appartiene più. Sono pesanti le sue parole, come colui che le pronuncia. Quando abbiamo iniziato a dare accezione negativa alla parola pesante? Forse quando il "tutto e subito" ha pervaso il nostro quotidiano, e tutto ciò che ha un peso non può essere veloce. Decidiamo che non siamo a questo tavolo per una soluzione, perché siamo tutti responsabili della deriva. Ma parlarne è mostrare le sbarre di quella prigione che ci tiene confinati nelle nostre convenzioni.

"Un prigioniero consapevole della sua cattività ha due strade: la lotta per l'evasione, o l'accettazione della pena per le sue colpe. Ma se nella stessa prigione rendi invisibili le sbarre, quell'uomo non sarà mai consapevole della sua condizione e vivrà nell'illusione di una libertà che invece non ha" spiega con un bel luccichio negli occhi.

Se siete arrivati fin qui, cari lettori, siete quel prigioniero consapevole e voglio condurvi in altre celle. Parliamo infatti di Carnevale di Cinisi in quanto fatto culturale.

"Si può scegliere di fare un carnevale improvvisato in un mese, in cui le persone decidono di impazzire per qualche giorno e infrangere tutte le regole del quotidiano. Oppure si può programmare un evento di alto livello la cui organizzazione parta dall'anno prima. A Cinisi accade che si voglia fare un carnevale di alto livello in un mese scarso. Il risultato è un surrogato, espressione reale di quel malessere che permea ogni ambito delle nostre vite" incalza il nostro Cesare. E dà la sferzata finale: "Tutte queste regole per un momento di follia, sono assurde. Se al carnevale dai le regole, lo hai ammazzato!"

Gli argomenti sono tanti, e la conversazione è un crescendo di indignazione nei confronti di una società che va in una direzione del tutto opposta a quello che la natura dell'uomo è portata a condurre. Parliamo di intelligenza artificiale, di macchine per ogni cosa e di bambini armati di dispositivi elettronici sin dalla tenera età.

"Piuttosto che uno smartphone, sarebbe meglio dare un coltello in mano a un bambino, correndo pure il rischio che si tagli: la ferita e la conseguente cicatrice gli ricorderebbero che quello è un oggetto da maneggiare con cura. Ma i danni che fa quest' uso smodato dei dispositivi elettronici sono invisibili e quindi insanabili" chiude.

Non so come e non so perché arriviamo alla conclusione che bisognerebbe portare in auge l'arte dell'ignoranza, che nella scaletta che mi facevo nella testa durante l'ascolto, si è piazzata subito in vetta al testo.

"C'è un'ignoranza che è semplicità, che si trasforma in un guardare le cose per la prima volta e con occhi puri".

E il sipario cala così su un confronto sano e arricchente, lasciando spazio a riflessioni intime per ciascuno.


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